Riceviamo e pubblichiamo con gioia il racconto di Virginia che, con Sara e Ludo, ha trascorso a Sanganigwa alcuni giorni delle scorse vacanze di Natale.
“History can’t be changed” ci dice Kenneth mentre ci spiega l’importanza che ha per lui avere le foto dei ragazzi di Sanganigwa, di tutti coloro che qui hanno vissuto nel corso del tempo e che ora sono cittadini attivi adulti consapevoli e indipendenti che ogni giorno si costruiscono la propria vita, stampate nel suo ufficio e guardarle ogni giorno.
Questa frase mi rimane impresso e ora che ci penso, è proprio vero: ringrazio il cielo che la storia non può essere cambiata perché quello che abbiamo vissuto in questi 5 giorni, ci ha cambiato la vita.
Sanganigwa è un posto speciale. Non è un normale orfanotrofio. Quanto amore e quanto impegno mai saranno serviti in questi 20 anni per creare un posto cosi unico!
Fin dal primo momento io, Ludo e Sara ci siamo sentite a casa. Non sapevamo bene cosa ci aspettasse.
Il primo incontro con Kenneth, il coordinatore di Sanganigwa insieme a Joseph, il nostro driver per tutta la permanenza a Kigoma, ci ha fatto capire fin dall’inizio che sarebbe stata un’esperienza unica.
Siamo partite dall’Italia piene di pesi e di bagagli, piene di fatiche. I bagagli contenevano solo vestiti da regalare. Per quanto riguarda le fatiche, avete presente quelle che ci pesano tanto qui nel nostro mondo? Quei macigni che ci portiamo nel cuore, talmente pesanti che ci convincono che qui le cose siano difficili.
Dopo 5 giorni, siamo ripartite per tornare in Italia leggere, senza macigni nel cuore, con un’idea chiara di quello che conta nella vita.
E’un po’ riduttivo descrivere solo qualcuno dei bambini o persone che abbiamo conosciuto a Sanganigwa, ma ci sono alcune emozioni vissute in questi giorni che è bene condividere.
Andiamo con ordine, anche temporale cosi che è più semplice anche per chi legge percepire quello che abbiamo vissuto.
Arriviamo a Kigoma, dopo un lungo viaggio. Kenneth e Jospeh ci accolgono e ci portano a Sanganigwa, dove ci aspetta un buonissimo pranzo preparato da Maria. Kenneth ci mostra le camere, ognuna ha il nome di uno scimpanzé che Jane ha studiato. Eh si, proprio lei, quella Jane, Goodall!
Sanganigwa è un vero villaggio: ogni bambino vive in una casa con altri 6/7 bambini. E ogni casa ha una “mama”. Nessuno si sente solo.
Kenneth ci porta a scoprire ogni angolo del villaggio, conosciamo tutti i bambini, le mamas, la suora Maria, il giardiniere e le guardie. Kenneth ha fatto in modo che per il nostro arrivo, essendo vicino a Natale, rimanesse all’orfanotrofio il maggior numero possibile di bambini. Ci teneva che fossero solo pochi a non conoscerci, solo quelli che proprio dovevano fare visita alle famiglie acquisite.
Uno degli episodi che più mi ha toccato è stato il primo incontro con un piccolo bimbo, arrivato solo da un mese: Majaliwa. Ha una storia alle spalle che mi risulta difficile anche scrivere, eppure quella piccola peste di 3 anni ha sempre il sorriso solare stampato sul viso. Appena ci vede ci corre incontro, come un bambino che vede la sua mamma dopo tante settimane, mi salta in braccio e mi stringe forte forte. In un solo secondo, mi ha conquistato per sempre.
Da quel momento non ha mai smesso di farlo: ogni volta che ci vedeva arrivare da lontano, lasciava tutto quello che stava facendo e mi correva incontro. E pensare quanta felicità racchiusa in quegli occhi, occhi che non avevano visto ancora tante cose belle. E solo per un piccolo abbraccio.
Poi c’era Maria, sorella (stessa mamma) di Maja, che passava ore a toccare la faccia di Sara e ad accarezzarci i capelli, come fosse il gioco più divertente al mondo. L’ultima sera, questa piccola di 6 anni, durante il ballo di “arrivederci” che ci hanno preparato i ragazzi, appena ha realizzato il significato delle parole che cantava, ovvero che avrebbe dovuto salutarci, è scoppiata a piangere. Ancora ho quell’immagine fissa di noi, come se qualcuno ci stesse riprendendo dall’alto con una telecamera, con un cellulare.
Io con in braccio Maja, Ludo e Sara di fianco a me. Pietrificate, in silenzio. Nessuna di noi ha avuto il coraggio di guardarsi, forse stavamo facendo una gara: vinceva chi riusciva a trattenere meglio le lacrime. Non riuscivamo a togliere lo sguardo da quei bambini che cantavano. Non siamo nemmeno riuscite a riprendere quel momento, perché volevamo godercelo senza perderne nemmeno un istante.
Noi e le nostre lacrime, piene di gioia per averli conosciuti, piene di tristezza perché avremmo dovuto presto salutarli.
Un’esperienza unica è stata la messa, in Swahili ovviamente. Kenneth cercava di tradurci le cose più importanti, ma in realtà non servivano molte traduzioni perché quello che trapelava da tutti loro molto visibilmente era semplicemente Armonia e Amore.
Un paio di volte siamo uscite con Kenneth a piedi; ci teneva molto a farci scoprire la realtà di Kigoma in tutti i suoi angoli, raccontandoci aneddoti, storie della sua vita, dei piccoli orfani, di Jane Goodall, dell’Africa. E noi ad ascoltare perché in realtà erano tutte lezioni di vita.
Decidiamo di andare al Gombe National Park, distante una ventina di chilometri da Kigoma, a fare il trekking per andare a cercare gli scimpanzé, esattamente dove Jane Goodall li ha scoperti e studiati. E’ stata un‘esperienza unica, davvero mozzafiato. Non pensavo ci saremmo potute avvicinare cosi tanto, ed eravamo solo noi 3 con una guida e 2 rangers che ci hanno dedicato tantissimo tempo.
Per arrivare alla riserva naturale bisogna fare 2 ore di barca (che per noi sono diventate quasi 3 perché il tempo non era molto favorevole) costeggiando tutto il Lago Tanganyika (il secondo lago più grande del mondo, il più profondo – 400 metri), che separa la Tanzania dal Congo.
Un’altra scena degna di nota, è l’arrivo di un cantante a Kigoma: giunge la notizia che è arrivato alla stazione dei treni un idolo dei ragazzini, una sorta di Justin Bibier per noi. Prese dall’entusiasmo, tutte le ragazzine e giovani del paese uscivano di casa, e correvano verso la stazione dei treni, dove si sarebbe fatto vedere il cantante.
Noi eravamo nel giardino a giocare con i più piccoli, quando Catherine, una ragazzina di 13 anni cosi pura, elegante ed educata, mi guarda negli occhi e mi dice “anch’io vorrei andare, ma preferisco stare con voi”.
Mi alzo e le dico “andiamo insieme”. Andiamo da Nasra (moglie di Kenneth) a chiedere il permesso. Ci guarda negli occhi ed è palese che la risposta migliore sarebbe stata “no”, ma capendo la situazione ci dice “non vi avvicinate troppo”. E cosi noi 3, con 5 ragazzini per mano ci incamminiamo, travolte da una sorta di manifestazione pacifica. In quel momento i ragazzini ci hanno sentite parte del loro mondo.
Ma la scena più toccante è stata sicuramente quella dell’”arrivederci”: penso proprio che Kenneth avesse organizzato appositamente un “saluto” la sera prima che noi partissimo (durante il quale abbiamo consegnato i regali a tutti i bambini) proprio per evitare che il giorno dopo loro soffrissero il distacco.
Tuttora mentre scrivo mi scendono le lacrime. E questo succede tutte le volte che racconto questa scena.
Quella mattina, il giorno della partenza, non riuscivamo a parlare. Eravamo tristi. La Jeep era parcheggiata in mezzo al giardino, sotto l’albero, con la portiera del baule aperta.
Speravamo non arrivasse mai quel momento, ma purtroppo prima o poi avremmo dovuto affrontarlo.
Il piccolo Maja, come sempre, quando ci vede ci corre incontro e mi salta in braccio, ignaro di quello che sta succedendo. Qualcuno gli spiega in swahili che stiamo partendo per l’Italia. Lui da solo, si avvicina alla macchina, e sale, si siede dietro. Dice alla sorella “Vieni! Vieni anche tu con me, io vado in Italia!!!”Maria sale e si siede di fianco a lui. All’improvviso arriva Kenneth e ci dice “andiamo, forza!!!!”, quasi come sei volesse che quel momento non durasse troppo.
Maja è costretto a scendere e inizia a capire che forse una volta sceso da quella macchina non ci avrebbe più viste. Inizia a piangere. Singhiozzava.
E ho ancora quell’immagine di lui impressa nella mia mente mentre si stringe forte alla sua mamma.
Quel viaggio verso l’aeroporto di Kigoma è durato 10 minuti, ma sono stati i 10 minuti più lunghi del mondo. In un secondo ci siamo lasciate tutto alle spalle.
Quel silenzio non me lo scorderò mai: il silenzio più rumoroso del mondo.
Poche parole abbiamo imparato in Swahili, ma sicuramente ce n’è una che ci è servita molto, e ci serve molto ancora pensando a quei momenti: “Asante” (“grazie”).
Pensavamo che saremmo andate ad aiutare loro, e alla fine loro ti danno qualcosa di unico che nessun altro può regalarti allo stesso modo, quindi sei tu a dover ringraziare loro.