E’ sempre più evidente che le scimmie antropomorfe praticano forme di automedicazione, affidandosi alla medicina naturale e sfruttando lo sterminato bacino erboristico degli habitat dove vivono. Diventa, quindi, ancora più importante proteggere l’habitat dove vivono questi animali. Elisabetta Visalberghi ci sintetizza un recente articolo pubblicato sulla rivista scientifica Scientific Reports.
DI: ELISABETTA VISALBERGHI
Quello dei farmaci è un gigantesco affare a livello mondiale, che fortunatamente non riguarda le scimmie antropomorfe, che si affidano alla medicina naturale sfruttando lo sterminato bacino erboristico degli habitat dove vivono. Ad esempio, gli scimpanzé sembrano avere risolto il problema dei medicinali grazie all’automedicazione, alla quale ricorrono in caso di infezioni e intossicazioni.
Tutto ebbe inizio con gli episodi osservati da Jane Goodall a Gombe, ma solo dopo Michael A. Huffman, primatologo dell’Università di Kyoto, ha sistematicamente studiato gli aspetti comportamentali, ecologici, farmacologici e antropologici dell’automedicazione di diverse specie animali in collaborazione con studiosi di tutto il mondo. In una delle sue prime osservazioni, Huffman vide una scimpanzé gravemente debilitata, letargica, e inappetente, che consumava germogli di Vernonia amygdalina, una pianta dal gusto amarissimo che normalmente non avrebbe mai mangiato. Dopo pochi giorni la sua salute migliorò sensibilmente.
In certi casi gli scimpanzé arrivavano a percorrere molti chilometri per mangiare certe piante anziché altre a loro immediata disposizione. In questi casi è stato dimostrato che avevano i vermi e che le foglie ruvide e pelose di quelle piante – ingerite senza masticarle – ne facilitavano l’espulsione. Insomma, l’automedicazione sembrava proprio eseguita di proposito e servire allo scopo.
Ma solo più tardi in Scientific Reports Isabelle Laumer (Max Plank Institute, Lipsia) e collaboratori riportano il primo caso di automedicazione di una ferita; l’articolo è accompagnato da materiale fotografico e video che mostrano come lo stato della ferita gradualmente migliori dopo i trattamenti. Protagonista di questo studio è un maschio adulto di orango – questa volta siamo a Suaq Balimbing nell’isola di Sumatra (Indonesia). Rakus, così si chiama, che aveva una brutta ferita sul muso è stato osservato mentre più volte masticava le foglie di Fibraurea tinctoria, ne estraeva il succo e lo applicava con le dita sulla sua ferita, oppure la ricopriva con la pappetta di foglie triturate che via via gli si formava in bocca. La Fibraurea tinctoria viene anche usata nella medicina tradizionale di molti paesi asiatici, i furanoditerpenoidi che contiene hanno proprietà disinfettanti e antinfiammatorie.
È dal 1994 che gli oranghi di Suaq vengono studiati e, nonostante le quasi 30.000 ore di osservazioni, questo è l’unico evento di questo tipo mai osservato.
Vista la rarità di casi come questo, diventa ancora più importante proteggere l’habitat dove vivono questi animali. Se non lo facciamo rischiamo di non potere mai più documentare tanti aspetti fondamentali del loro comportamento.